Di moda si, ma sostenibili. Ai Millenials (e non solo) piace il riciclo.

ASM SET 10/nov/2020
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Un video su Tik Tok, una storia su Instagram. Spesso li pensiamo così, ma sia i Millenials che la Generazione Z sono molto attenti e sensibili a tutto ciò che li circonda ed è connesso con la sostenibilità, l’ambiente e, di conseguenza, con la vita del pianeta che abitiamo.

La storia di Greta Thunberg e il movimento studentesco internazionale Fridays for Future, nato dalla sua caparbia protesta, ha coinvolto milioni di giovani, ne è una prova evidente.

Una nuova coscienza non più solo ambientale che coinvolge proprio le persone che già da oggi hanno nelle mani il futuro del pianeta. Costretti ad agire ora per rimediare a ciò che di sbagliato è stato fatto in passato, sono consapevoli dell’importanza delle loro scelte e di quanto i loro comportamenti quotidiani possano avere un effetto fondamentale, anche nelle piccole cose.

La sostenibilità in tutte le sue declinazioni è un tema centrale in ogni scelta della loro vita: come si nutrono, come fanno acquisti e persino come si vestono.

Nel 2018 l’Osservatorio Pwc ha intervistato un campione di 2424 persone, di cui il 39% nati tra il 1980 e il 1994 e il 63% nati tra il 1995 e il 2010. L’indagine ha raccolto informazioni sui comportamenti di acquisto, sulle motivazioni e anche sulle scelte che erano disposte a fare: il risultato ha evidenziato un approccio piuttosto netto.

I giovani sono disposti a pagare di più per un capo di abbigliamento che sia realizzato rispettando l’ambiente e il lavoro delle persone che lo confezionano.

Il 22% degli intervistati della Generazione Z è disposto a spendere il 5% in più per acquistare accessori sostenibili, mentre il 17% arriverebbe ad aumentare la spesa del 10 per cento.

Acquistano online ma non sono compratori impazienti: si informano sul prodotto ma soprattutto sui comportamenti del brand, cercano informazioni che gli diano certezze sui processi produttivi, sulla tracciabilità delle materie prime e del lavoro di chi ha confezionato il capo, leggono le recensioni e, in generale, sono molto informati, specialmente tramite i social o le fonti specializzate.

Quali sono le conseguenze sull’industria del fashion?

I brand e il fashion (in)sostenibile.

Nel 1989 il New York Times coniò il termine fast fashion, calcolando che ci volevano solo 14 giorni per trasformare il disegno di uno stilista in un capo d’abbigliamento immediatamente disponibile in negozio. La conseguenza è stata un aumento esorbitante della produzione, soprattutto da parte delle grandi catene, ma non solo: tra il 2000 e il 2014 è raddoppiata e il numero di capi acquistati è aumentato del 60%.

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Oramai il numero delle collezioni che i brand mainstream fanno uscire non si conta nemmeno più: in media dalle 12 alle 16 senza contare i cosiddetti flash che escono ogni settimana.

Una sorta di ciclo continuo che alimenta i bisogni e desideri di chi acquista facendo leva sia sul costo (sempre estremamente basso, tanto da giustificare l’acquisto compulsivo e impulsivo, perché poi il capo viene sostituito velocemente da un altro appena uscito) che sul desiderio di essere sempre attuali e sempre alla moda per sentirsi parte di un gruppo o di una community.

I consumatori considerano la fast fashion come usa e getta: ogni abito viene indossato non più di 7-8 volte, dopodiché viene eliminato e finisce nei rifiuti: direttamente nel cassonetto o, quando le persone sono coscienziose, nei contenitori delle associazioni caritatevoli che li riciclano attraverso i loro punti vendita o mercatini, oppure li vendono a peso come stracci da riciclare a loro volta.

Oggi gli abiti venduti sono il 400% in più rispetto a venti anni fa, ma solo l’1% viene riciclato.

Cosa significa in termini di impatto sull’ambiente? Basta guardare con attenzione le etichette degli abiti che acquistiamo. Il 60% è fatto di poliestere pari a 500mila tonnellate di microfibre che si riversano nelle acque dei fiumi e poi dei mari (materiali che non si decompongono e finiscono per intossicare le creature marine): praticamente 50 miliardi di bottiglie di plastica che galleggiano.

Oltre a questo, vi siete mai chiesti cosa succede a tutto ciò che le catene non riescono a vendere? Il problema della merce invenduta, che inesorabilmente si accumula nei depositi dei negozi, non è solo economico, bensì ambientale. Il suo smaltimento è innanzitutto un costo ma anche una ulteriore fonte di produzione di scorie e inquinamento. Un camion della spazzatura ogni secondo viene bruciato oppure scaricato in discarica.

Un’equazione pericolosa e inarrestabile: più produzione, più risorse usate o meglio sprecate (acqua, sostanze chimiche).

Meno ma meglio.

Questo è il nuovo concetto che un grande marchio, Gucci, sta dichiarando (e non è il solo) per andare incontro ad un modello più umano della moda, in cui le collezioni corrispondano alle stagioni reali, quelle percepite e vissute da chi poi gli abiti li indossa davvero e continua a farlo, anno dopo anno, proprio in virtù di quella qualità di materiali e design che fa necessariamente parte del mondo fashion.

Meno sprechi, meno risorse impiegate, più consapevolezza soprattutto da parte dei consumatori.

Non solo: la scelta dei materiali ha un impatto non solo sull’ambiente ma anche sulla vita delle persone che lo producono. Ovs, per esempio, ha scelto di produrre con il 100% di cotone biologico o comunque proveniente da coltivazioni certificate da Better cotton initiative, una organizzazione che promuove standard per la produzione di un cotone più sostenibile, a favore dell’ambiente e delle persone.

La Fashion Revolution. La moda etica e sostenibile.

Le nuove abitudini dei consumatori e anche le conseguenze portate dalla pandemia in corso hanno spinto i brand verso un cambiamento sempre più massiccio: da una produzione lineare (capi di abbigliamento che una volta gettati, finiscono la loro vita) ad una circolare in cui tutto l’intero processo produttivo è tracciato e il ciclo di vita consente il riutilizzo dei materiali impiegati che, in questo modo, vivono una seconda e anche una terza vita.

Ma non solo questo: un abito deve essere bello, deve durare e deve essere fatto per poter essere riciclato. Etica ed estetica per proteggere l’ambiente e usare meno risorse.

Il fashion sta imparando ad innovare: nella scelta dei materiali, nella lavorazione, nel riuso, nella progettazione, nel design. Il mondo è di tutti. E i brand stanno imparando a prendersene cura.

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Gli esempi non mancano: H&M riacquista vecchie t-shirt per trasformarle in nuovi maglioni, Gucci sta creando degli store per capi di seconda mano, Levi’s ha lanciato una collezione di vestiti “da noleggiare”, Vivobarefoot, una startup, ricondiziona e rivende scarpe usate.

Questi sono solo alcuni dei marchi che propongono una moda di qualità e allo stesso tempo eticamente sostenibile.

La dimostrazione che si può essere fashion senza danneggiare il mondo in cui viviamo.

Buy less, buy better!

Cosa puoi fare tu.

I brand etici sono sempre di più: alcuni li abbiamo citati sopra, altri, invece, li abbiamo segnalati in un precedente articolo o li raccontiamo nel nostro podcast.

Se ti piace il vintage o il second-hand, puoi trovare tante soluzioni originali in alcuni siti specializzati, come ad esempio Depop (https://www.depop.com/). Sono capi messi a disposizione direttamente dagli utenti che, invece di buttarli, li mettono a disposizione, vendendoli così come sono oppure modificandoli per trasformarli in qualcosa di completamente nuovo e unico.

Ci sono poi alcuni consigli “della nonna” per prendersi cura dei nostri abiti: loro lavavano a mano in acqua fredda. Le nostre moderne lavatrici sono dotate di programmi di lavaggio a freddo, che svolgono la stessa funzione e sono utilissimi per preservare le fibre dei tessuti e mantenere forma e consistenza.

E poi un ultimo consiglio: acquista consapevolmente e senza farti troppo prendere dall’entusiasmo del momento. Il beneficio non sarà solo per l’ambiente, ma anche per la tua tasca.

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